Smettiamo di venerarla come “pala devozionale” e guardiamola per ciò che è: una macchina narrativa fredda, geometrica, che mette in scena tre tempi politici. A destra, i tre personaggi in abiti contemporanei a Piero: l’Italia del Quattrocento, con i suoi equilibri e i suoi fallimenti. A sinistra, la Flagellazione: l’archetipo della violenza legittimata. In mezzo, l’architettura: il codice che traduce una profezia civile in prospettiva.
Che la tavola fosse nata per una committenza colta lo sappiamo; che funzioni come diagramma morale lo si capisce oggi più che mai. Piero non “nasconde simboli”: li programma. Le misure, i tagli di luce, la distanza chirurgica: tutto concorre a un messaggio che non consola, ma misura il danno — la complicità con cui lo spettatore accetta la scena.
Il punto non è sciogliere l’enigma (“chi sono i tre?”), ma capire perché restiamo lì, incapaci di reagire. È l’arte come dispositivo di coscienza, non come reliquia. E nel Quattrocento italiano la coscienza si chiama proporzione: la morale passa per il rigore.
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