di Luca Sforzini, esperto d’Arte e proprietario del Castello di Castellar Ponzano (https://www.valutazione-quadri.it/)
C’è un paradosso che lo spettacolo “True Copy” porta in scena con lucidità chirurgica: per capire l’autenticità oggi, bisogna partire dal falso. Non dal falso triviale, ma da quello “intelligente”, sistemico, capace di confondersi con la verità perché usa i suoi stessi strumenti. Il protagonista implicito è Geert Jan Jansen, l’olandese che per decenni ha prodotto e immesso nel mercato opere nello stile di Picasso, Matisse, Chagall, Jorn, Appel. Il collettivo teatrale BERLIN ricostruisce non solo la storia, ma il metodo: uno studio d’artista suddiviso per “identità” imitate, la prassi dei materiali, la liturgia dei certificati. È la macchina dell’autenticazione esibita a teatro, finalmente visibile.
“True Copy” non è un semplice biopic scenico. È un processo pubblico al dispositivo di verità dell’arte: case d’asta, expertise, archivi di fondazione, la catena dei passaggi di proprietà, i cataloghi ragionati come “Bibbia” e — soprattutto — la retorica del certificato. In questo, lo spettacolo centra la questione culturale e politica del nostro tempo: l’autenticità non è un valore ontologico, ma un accordo istituzionale. Se salta la fiducia nella filiera, si sbriciola il prezzo, vacilla la memoria, si riscrive la storia. Il punto non è la bravura del falsario (che pure c’è): è la vulnerabilità del sistema, la sua dipendenza da segni, carte, sigilli, pareri che pretendono di essere neutri e invece sono sempre decisioni.
La regia insiste su un fatto scomodo: a rendere credibile il falso non è solo la perizia tecnica, ma il contesto. Una cornice autorevole, un intermediario con reputazione, un timbro, una sala prestigiosa: sono gli apparati di legittimazione a trasformare una tela in un capitale. Qui sta la forza politica del lavoro: “True Copy” non assolutizza il genio del truffatore, ma rivela come il potere dell’immagine dipenda dall’ecosistema che la circonda. E che questo ecosistema, per mantenersi, tende a naturalizzare i propri criteri (è vero ciò che diciamo sia vero) e a rimuovere le ambiguità che lo alimentano.
C’è anche un livello simbolico, che lo spettacolo lascia filtrare senza didascalie: il doppio, l’ombra, il simulacro. Il falsario è la coscienza sporca del sistema; imita gli stili per mostrarne i codici, però nello stesso tempo li conferma. È il lato notturno dell’arte moderna: quello dove l’aura diventa procedura, l’ispirazione protocollo, l’opera firma. La ricostruzione dello studio “a stanze”, ciascuna dedicata a un artista, funziona come una piccola camera delle metamorfosi: non si copia soltanto la calligrafia pittorica, si copia il tempo di ciascuno, il suo ritmo interno, i pigmenti, il supporto, le crettature. Lì la tecnica sfiora quasi l’esoterico: la trasmissione di una “forma interna” che si incorpora nel gesto.
Sul piano storico, la parabola di Jansen è nota: arresto negli anni Novanta, sequestro di un numero ingente di opere e documenti, vicende giudiziarie complesse e controverse, una stagione di processi in Francia, tra misure detentive e pene sospese; soprattutto, la scoperta di un deposito sistemico di firme, carte, certificati. Non interessa qui il folklore del “genio del crimine”, ma il corto circuito istituzionale che questa storia ha rivelato: l’efficienza dei controlli, la responsabilità degli attori della filiera, il rapporto tra archivi d’artista e mercato, l’asimmetria informativa che espone collezionisti, eredi, gallerie minori.
“True Copy” allora non “romanticizza” il falsario: smaschera il romanticismo dell’autenticità. Ci chiede di rimettere al centro tre verbi pratici — vedere, verificare, contestualizzare — e un principio etico: in un mercato finanziarizzato, l’expertise non è un esercizio di stile, ma un atto di responsabilità pubblica. La lezione vale per tutto ciò che circola oggi: dipinti moderni e contemporanei, grafica d’autore, multipli, opere su carta, materiali sensibili alle scorciatoie di attribuzione.
Per i collezionisti seri, il messaggio è limpido: la bellezza di un’opera non basta a fondarne il valore; contano provenienza, storico espositivo, bibliografia, diagnostica coerente, congruità dei materiali e delle tecniche. È la trama documentale — coerente, verificabile — a separare la rivelazione dal miraggio.
Perizie e stime su opere analoghe (pittura moderna e contemporanea, grafica e multipli anni ’50–’80, scuole CoBrA, area Appel/Jorn, ambito Picasso/Chagall/Matisse, moderni europei, certificati e provenienze da verificare):
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